giovedì 18 luglio 2013

Pacific Rim



PACIFIC RIM, di Guillerme del Toro .

La Terra è attaccata da enormi creature che escono da una breccia sotto l'Oceano Pacifico e l'essere umano non può far altro che riunire le sue tecnologie per costruire dei robot all'altezza della situazione.
Dopo il periodo fumettistico di Hellboy Guillerme del Toro si dedica stavolta al genere della fantascienza, attraverso una storia vicina a molti cartoon giapponesi degli anni Ottanta e che lascia ben poco spazio a qualsiasi sorpresa. Pacific Rim non è altro che il racconto della lotta tra robot e mostri alieni che minacciano l'esistenza dell'essere umano, e che è destinata a concludersi nel più classico dei modi. Eppure è proprio il modo di fare le cose che spesso determina il successo o meno di un prodotto, e in questo caso non si può ignorare la mano talentuosa di questo regista, lo sporco “realistico” delle ambientazioni e dei robot, la carica sentimentale di molte scene e una “chicca” rappresentata dalla scena in flashback della bambina attaccata da uno dei primi mostri. Se la linea narrativa centrale è in definitiva quella di mille altri film, si noterà però come al suo interno qualsiasi tema (dall'amore fraterno a quello padre/figlio(a), dai nazionalismi all'ambientalismo) sia trattato in modo leggero ma presente, capace di elevare queste due ore e venti di puro intrattenimento a un prodotto più concreto e godibile. La mano di un artista si vede, e nessuna gabbia, tematica o di genere, riesce a nasconderla.

sabato 13 luglio 2013

To the Wonder


TO THE WONDER.

Neil e Marina sono una coppia di giovani innamorati, immersi tra le bellezze della Francia e pronti ormai al grande passo verso la terra natia di lui, gli Stati Uniti. Trasferitisi in Oklahoma insieme alla figlia di lei, avuta da una precedente relazione, la coppia vive momenti di felicità e di crisi e, tra separazioni e riconongiungimenti, percorre tutta la strada del sentimeno amoroso secondo Terrence Malick.
Non conta la storia in questo ultimo film del leggendario regista texano; come al solito lo spazio dello schermo viene invece dedicato a immagini incredibili e sbalorditive, capaci di cogliere tutta l'essenza del creato che ci circonda, facendo percepire la fede in una Vita composta non da più parti, ma in cui tutto e tutti fanno parte di un unico Essere. Una visione che trova un'eccezionale messa in scena nel naturale ciclo delle acque a Mont Saint-Michel, dove da un attimo all'altro si passa dalla quiete all'alta marea, come più tardi accadrà alla giovane coppia.
Dopo aver ricostruito la storia del Bing Bang e mostratoci il dualismo che da sempre regna tra Grazia e Natura, Terrence Malick rinnova stavolta la sua continua sfida col cinema narrativo hollywoodiano trattando un tema paradossalmente più complicato come il sentimento d'amore. Nonostante sia alla portata di tutti infatti, la sua descrizione e analisi necessitano di una comprensione che nessuno può raggiugere; neppure Malick. E infatti non è questo il suo obbiettivo, né la sua pretesa. Non si tratta di analizzare un sentimento così complesso ed epico, ma di “mostrare” invece il percorso che esso assume in una qualsiasi coppia, passando dall'esaltante fase iniziale al suo indebolimento; la famosa radice che si secca, immagine più volta richiamata a voce nel film. La modalità poi in cui avviene questa messa in scena è semplicemente unica, affidata ad una visione estetica che solo questo regista ha il talento e il coraggio di continuare a esprimere ad Hollywood, attraverso una macchina da presa in movimento a 360°, sempre in contatto con cielo e terra, e quella dannata magic hour (la luce del tramonto) da sempre protagonista dei suoi film.
Questi quadri in movimento sono talmente ricchi e numerosi che fanno però sentire l'assenza di qualcosa. Manca un contesto narrativo, uno sviluppo minimo di scene, di momenti all'interno del film, che permettano allo spettatore di relazionarsi con ciò che vede. Questo c'era in The tree of Life, e perfino nel meno riuscito The New World; seppur minimamente era però possibile seguire un'evoluzione narrativa che dava la possibilità di finalizzare quella bellezza estetica di cui si disponeva in sala. In To the Wonder invece tutto resta solo accennato, intuibile per lo spettatore ma solo attraverso un eccessivo sforzo interpretativo, che allo stesso tempo compromette una parte del godimento offerto dalle immagini. Il risultato a cui si giunge in questo modo è quello di rendere purtroppo noiose anche le danzanti camminate in mezzo ai campi, segno da sempre contraddistintivo di questo immenso ed unico artista, sempre alla ricerca di una sfida.

mercoledì 3 luglio 2013

Holy Motors



HOLY MOTORS.

Una volta c'era il cinema, ma prima ancora di esso già qualcosa di simile stupiva e ispirava. Simile ma non uguale appunto. Il pre-cinema (formula che non rende il giusto merito ai pionieri pre-Lumière) era definito generalmente a quei tempi fotografia in movimento e, prima che la pellicola divenisse una macchina per raccontare, le immagini venivano catturare col solo scopo di registrare una performance; un fine semplicemente documentario. Che cosa sarebbe oggi il cinema se la strada perseguita fosse stata questa anziché quella narrativa?
E' la domanda alla base della complessa opera di Leos Carax intitolata Holy Motors, uscita nelle sale con ben un anno di ritardo rispetto alla sua produzione e perfino accolto a Cannes solo al secondo tentativo, dopo il rifiuto del caro Moretti nel 2012. Il film “narra” (ed è l'unica parte a cui possa essere attribuito tale verbo) i viaggi per la città di un performer a bordo di una limo, tra continui travestimenti e messe in scena di momenti di vita di altre persone/personaggi. Ora, provate a guardare tre o quattro episodi in successione, separati però l'uno dall'altro, come avviene in questo film senza cercare una connessione... impossibile! E, giustamente, inevitabile. La nostra percezione della materia cinematografica è frutto di quella lunga storia della settima arte che si è fatta in ognuno di noi, e in modo diverso, esperienza spettatoriale. Non possiamo prescindere dal collegare le scene, e soprattutto dal ricercare il legame fondamentale tra causa ed effetto. Eppure stavolta questo non vale: un banchiere prima, un mostro celtico dal richiamo barneyano dopo, un vecchio magnate etc.; se riuscite a trovare un legame mi guardo una serie intera di Don Matteo.
Leos Carax costruisce una messa in scena continua di performance, dove lo spettatore assiste al processo di metamorfosi a cui si deve sottoporre l'attore, rimanendo abasito già quando la porta della limo si apre per la prima volta, lungo il fiume Senna, facendo scendere una figura del tutto diversa da quella prevista. La cornice narrativa che tiene assieme tutte le esibizioni è proprio la causa della nostra illusione,e ricerca, di continuità, e diventa la situazione per affrontare temi cari al regista, quali la sottomissione ai media, la violazione della privacy e soprattutto la morte della pellicola. Invece gli episodi dei vari personaggi impersonificati dal protagonista sembrano essere prima di tutto citazioni dei generi cinematografici (dal thriller al musical), nonché allo stesso tempo citazioni di alcune opere, come per le scimmie del finale e di 2001: Odissea nello spazio e altre che non ho colte ma che sono sicuro siano presenti. La maestosità dei contenuti e la qualità estetica di queste performance non meritano invece di essere descritte in un campo critico così inadatto, nato in funzione dell'altra fotografia in movimento, quella cinematografica. Inoltre la complessità di significati, o l'illusione di essi, insiti in ogni episodio è veramente troppa per essere anche solo accennata a parole. Bisogna solo osservare e ammirare.
Se gli antichi inserti visivi posti qua e là sono proprio documenti del pre-cinema, più illusorio è invece il percorso attraverso cui il film travia lo spettatore nel finale: il deposito d'auto segna la fine dell'azione notturna, e la conclusione del turno lavorativo degli autisti sembra essere l'occasione per svelare finalmente i vari misteri che hanno tenuto in tensione il pubblico, e invece... le macchine iniziano a parlare tra sé, della vita e della morte di fronte al progresso (pellicola-digitale), e un invito si alza allora forte e deciso: non capite!  

venerdì 28 giugno 2013

Man of Steel ENGLISH REVIEW



MAN OF STEEL.

Zack Sneider, one of the most talented director of last generation, takes the responsability of play once again the story of Superman, after just seven years since Bryan Singer's version. For this occasion he choses the reboot solution, very frequent nowadays.
If it's not possible to subvert the structure of the story, Snyder decides to compose in a different way the events of Clark Kent's life, threw an interesting scheme of flashbacks and introducing just in the beginning the key enemy of the movie. It seems reasonable the fact that the first idea was to change the point of view upon a story known alla over the world, giving instead to the viewer a narration starting far from the main character and reaching him in medias res, when the enemy is just ready for the battle. The problem is that, as the Bill from the Tarantino movie tells, Superman is not a human being; he doesn't decide to become Superman, and we don't know who he is (and what he can do) at the beginning, but we discover it at the same time he discovers himself . However when you can just have a look to his adolescence threw some flashbacks, and your point of view is not the same of Superman for at least thirty minutes, there can't be fascination.
Furthermore also the central theme of Superman's dilemma between human beings and Krypton people is shown more by words than images, with dialogues that become redundant in this way.
The final result of this reboot is lack of fascination; also when the movie becomes full of action the viewing is only spectacular, no sentiment in it. And Superman's shout, at the end, echoes in a mind already far away from theater.

giovedì 27 giugno 2013

L'uomo d'acciaio



L'UOMO D'ACCIAIO.

Zack Snyder, regista tra i più stimati degli ultimi dieci anni, si prende a carico la grave responsabilità di rimettere in scena, dopo soli sette anni dall'ultima comparsata, la storia di Superman, attraverso un operazione che ultimamente ha trovato non pochi esiti positivi, il reboot.
Senza poter chiaramente stravolgere la struttura del racconto, il film ricompone in modo originale le fasi dell'esistenza del protagonista, giocando su un interessante schema a flashbacks, e optando per uno svelamento immediato dell'identità del nemico, introdotto da un prologo piuttosto “approfondito” sulle vicende che portano il giovane Kal El sul pianeta Terra. La considerazione alla base di quest'opera è evidentemente la necessità di cambiare il punto di vista su una storia che tutti conoscono, facendo in modo che la narrazione parta alla larga rispetto al suo protagonista e lo incontri invece solo in medias res, ovvero quando il nemico è pronto al confronto. Ma la particolarità di questo supereroe, così come sottolineava a suo tempo il Bill di Tarantino, è quella di non essere un umano; il suo percorso per divenire un eroe non è frutto di una sua scelta, e l'identità di questo individuo non è definita sin dall'inizio, ma è anzi il vero obbiettivo del viaggio di Superman. Quando la scoperta dei suoi poteri viene confinata nei soli flashbacks e il punto di vista dello spettatore per una buona mezz'ora non viene fatto coincidere con quello del protagonista, ma con quello di personaggi secondari, accade che il coinvolgimento nel percorso di questo supereroe sia limitato, oppure del tutto assente.
La crisi di identità del protagonista è sicuramente il punto centrale dell'analisi di Snyder, che realizza probabilmente la scena più forte e intensa proprio per uno dei momenti determinanti in questo senso, ovvero il sacrificio del padre terrestre; ma per tutto il resto del film invece la questione è solo oggetto di parole, e se il dilemma che vive il protagonista, diviso tra i due popoli, risalta allo spettatore non è per effetto delle immagini ma per quello di dialoghi ridondanti.
L'esito finale di questo reboot è una mancanza di interesse per le vicende raccontate, che anche quando si fanno colme di azione lasciano il pubblico a una visione spettacolare, ma priva di sentimento. L'urlo di Superman, dopo aver eliminato l'unico altro superstite di Krypton, echeggia così nel vuoto di una mente che ha già da parecchi minuti la sala.

martedì 25 giugno 2013

Stoker


STOKER.

La silhouette di una ragazza si staglia sullo sfondo di un tramonto intenso, dai toni cupi. Le parole fuori campo sembrano appartenere a una ormai ex adolescente, disillusa e pronta a iniziare il viaggio nell'età adulta: finalmente libera, pronta ad accettare il suo destino.
Chan-wook Park si trasferisce per questo film dall'altra parte del mondo, ingaggia maestranze americane e si affida ad un cast hollywoodiano composto da un interessante mix tra giovani promettenti e attori affermati; il risultato è semplicemente un film di Chan-wook Park. L'ossessione della critica cinematografica per il tema del regista trapiantato ad Hollywood finisce infatti stavolta con un risultato più unico che raro, e probabilmente deludente per i molti già pronti ad indicare l'ennesima prostituzione al mito hollywoodiano. Stoker si pone in modo naturale come continuazione dell'opera del regista, in linea con i suoi temi più cari e con il suo modus operandi, senza compromessi ma neppure cercando di nascondere la diverso dimensione produttiva in cui è stata realizzata l'opera.
Il film racconta la storia di India, una diciannovenne che ha appena perso il padre e che si ritrova, da un giorno all'altro, a dividere la propria casa con una madre che non ha mai sopportato e con uno zio di cui non ha mai conosciuto l'esistenza. Quest'uomo si rivela da subito interessato in modo ambiguo alla ragazza, e proprio la misteriosa natura di questo individuo finirà per rivelarsi decisiva nella maturazione della giovane protagonista. Tensione, seduzione, mistero: tutte le componenti dei migliori thriller hollywoodiani. Ma anche del cinema di Park che, come al solito, trasforma il soggetto scelto in un saggio sull'essere umano. Per fare ciò due sono le vie possibili al cinema: prendere l'esempio di individui e gesta straordinari, oppure quello di individui ai limiti opposti, in bilico tra morale e immorale, tra umano e disumano. Una delle due è la strada facile, l'altra è quella di Chan-wook Park.
Eros e Thanatos sono i motivi conduttori del film: il primo dà avvio alla maturazione della protagonista, l'altro è da sempre parte di lei e della sua natura. Lo zio diventa allora la guida in grado di scortare India nel delicato passaggio all'età adulta; senza perdersi nei dubbi amletici sulla propria identità ma finendo per comprendere che chi siamo ora è frutto del nostro passato e di un futuro già segnato. Mescolare amore e morte come fa quest'autore comporta però penetrare nel territorio del macabro, ed è in questo modo che il film si esalta e decide di parlarci più in generale dell'essere umano e della sua natura, attraverso l'antiretorica e la messa in scena delle sensazioni primarie che ci rendono prima di tutto degli animali. Così l'orgasmo nel film nasce dalla morte e dal suo ricordo, mentre il montaggio, le carrellate e il crescendo musicale del brano al pianoforte rappresentano la possibilità offerta a noi spettatori di renderci partecipi di un viaggio nella nostra natura.
Chan-wook Park dimostra ancora una volta quanto il termine “autore” non sia affatto improprio in certi casi, ma anzi valorizzi una continuità di tematiche e messa in scena che possono anche non cadere sotto i dettami di una cinematografia tanto diversa e tiranna. Il sangue e la morte continuano così a “strisciare” pure lungo Stoker, all'interno di immagini costruite con una cura maniacale per la fotografia e il dettaglio; come piccoli dipinti velati di mistero.Il regista si lascia andare stavolta anche a brillanti omaggi alla macchina del cinema (cos'altro è il cinema se non una luce che infrange il buio di uno spazio chiuso come quello di un sottoscala?), e se pure ceda forse qualcosa sul piano narrativo al momento della consueta scena americana di riepilogo dei “perché” e dei “come”, il percorso di vita scelto dalla protagonista nel finale riporta tutto il film nelle mani del suo coreano autore. E la sua firma non può che essere l'ennesimo (e forse pre-tarantiniano) spruzzo di sangue, stavolta su fiori immacolati.

venerdì 21 giugno 2013

Star Trek Into Darkness




STAR TREK INTO DARKNESS.

Quattro anni dopo il primo tuffo nel passato pre-serie tv, J.J. Abrams torna a misurarsi con la celebre sagra di Star Trek e con i suoi famosi protagonisti in questo Into Darkness dai colori accesi e toni cupi.
Di fronte a un attentato terroristico ai danni di una sede militare, la flotta stellare decide di avviare una caccia all'uomo per la cattura del mandante, ormai scappato però nelle terre limitrofe e out limits dei pericolosi Klingon. Di fronte alla concreta possibilità di far scoppiare una guerra con questo popolo, l'equipaggio della Enterprise dovrà decidere come procedere con una missione tutt'altro che trasparente, come invece gli è stata presentata.
Come spesso successo negli ultimi dieci anni di cinema hollywoodiano, in particolar modo nel genere fantascientifico, al centro della scena vengono disposti il tema del terrorismo e il suo ambiguo legame con gli apparati politici che dovrebbero rappresentare la difesa dei cittadini. L'eredità dell'Undici Settembre 2001 sul cinema è diventata una nuova dimostrazione dell'assoluta abilità di Hollywood di percepire lo stato d'animo e le paure della società circostante e di filtrare da esse ciò che più si adatta al successo di botteghino. Da questo punto di vista anche l'operazione del 3D risulta in funzione del primo, e naturale, obbiettivo di un'industria grande quanto il cinema hollywoodiano, capace di imporre le proprie strategie di marketing anche su un regista (tra i più “potenti”) che ha invece appena compiuto una scelta originale ed anacronistica, realizzando la sua opera in pellicola.
Ma molti altri sono i segni di un approccio originale e interessante a questo genere, da parte di Abrams. Se il primo capitolo era all'insegna dell'azione, nel nuovo film è la relazione tra i personaggi a primeggiare, soprattutto quella tra Kirk e Spoke. Sin dall'inizio è la loro amicizia ad essere al centro della storia, e, anche nel proseguo, lo sguardo costantemente puntato sui due non fa altro che rendere la “missione” solo un contesto e un pretesto per un'indagine ritenuta molto più interessante dal regista. Anche il cattivo di turno rompe con gli schemi classici del genere; prima assume i panni del nemico cinico, quindi, come prevedibile, si svela come un incompreso alleato. Ma nel finale la situazione a sorpresa si ribalta nuovamente, e il personaggio si mostra come il crudele antagonista da sconfiggere.
Che l'abilità di questo regista si adattasse in modo perfetto col genere d'azione lo si era capito da tempo, e viene ribadito anche qui già dal preludio del pianeta minacciato dal vulcano. Eppure stavolta a farsi notevole è lo sguardo offerto all'intimità dei personaggi, con una profondità che mai Abrams era riuscito a trovare nel precedente (e personale) Super 8. La scena finale in cui Kirk e Spoke sono divisi da una lastra di vetro non sarà certo originale per contenuti, ma funziona splendidamente: colpisce lo spettatore e frammenta senza disturbo alcuno l'azione. Altro segno di lavoro all'interno del genere, in cui solo i più grandi si sono finora cimentati con successo.

venerdì 24 maggio 2013

Il grande Gatsby


IL GRANDE GATSBY.

Nessuno sa chi sia Gatsby; ai più appare solo un'ombra capitata per caso nell'immensità delle sue celebri feste, che ogni settimana si ripropongono in pompa magna su una baia, di fronte a una lontanissima luce verde. Al centro della sua vita c'è solo una donna, conosciuta cinque anni prima, per pochi giorni e divenuta un sogno da coronare ad ogni costo.
Ma Gatsby finirà per non capire quanto la corruzione di cui sono fatte le sue gesta sia niente a confronto della bassezza di cui sono fatti gli uomini.
Baz Luhrman prende il romanzo di Fitzgerald, lo adatta alle musiche moderne pop e ne fa un'opera mitologica. C'è tutto in questo film e nella figura del suo protagonista: amore, amicizia, guerra, morte, sfarzo e povertà. Noi spettatori non riusciamo mai a capire come prendano forma questi elementi nel cuore e nella memoria di Gatsby, ma, esattamente come il suo unico amico e nostro narratore, possiamo percepire passo dopo passo, scena dopo scena, la grandezza di questo uomo, la sua modestia e umiltà, nascoste da uno sfarzo immane finalizzato ad un fanciullesco sogno d'amore.
La forma del film rispecchia perfettamente le mille facce del suo protagonista; dai tanti effetti per il 3d, all'uso esasperato del montaggio digitalizzato, alle magnifiche coreografie delle feste così come della splendida scena della rivelazione di Daisy, tra le tende agitate e volti velati. Proprio le feste sembrano essere il punto limite oltre cui il film non vuole andare; la complessa messa in scena di queste coreografie, di balli degli anni Venti danzati a ritmo delle musiche pop di oggi, avvicinano spesso il film al musical, ma proprio quando si sta per raggiungere l'esasperazione il film torna indietro, rivelando la sua maggior qualità proprio nel suo affacciarsi e tornar indietro prima di cadere.




sabato 11 maggio 2013

Effetti collaterali




EFFETTI COLLATERALI.


Le porte del carcere si aprono e una giovane moglie può finalmente riabbracciare il marito e riprendere in mano le redini del proprio destino. Ma la mente umana può nascondere brutte sorprese, e a niente servono a volte neppure i mille rimedi farmacologici che il mercato offre.
La questione morale della libera circolazione dei farmaci psichici è al centro del nuovo film di Steven Soderbergh che, attraverso un racconto sempre vivo e ricco di colpi di scena, riesce a tenere alta l'attenzione e crescente l'interesse. Merito soprattutto del lavoro impegnativo che lo spettatore è chiamato a compiere per arrivare a conoscere la verità; sempre passo passo col protagonista Jude Law.
E chissà che anche lo spettatore non sia vittima anch'egli di un effetto collaterale, forse della troppa fiducia verso chi mostra questa storia... non é forse strano vedere già all'inizio il palazzo dove tutto si conclude?  

martedì 16 aprile 2013

Come un tuono


COME UN TUONO.




Le azioni che compiamo hanno le loro conseguenze, a volte prevedibili, a volte meno, ma il loro peso non cade solo su di noi ma anche sui nostri figli: questo, il messaggio del film. Come un tuono (A Place Beyond the Pines) racconta la storia di quattro vite riunite in due generazioni, e intrecciate tra loro come in una ragnatela, tessuta sulle scelte di vita dei loro protagonisti.
Derek Cianfrance opta per una struttura narrativa che si rifiuta di fare del “destino” l'elemento cardine del suo sviluppo, concentrata invece sull'essere umani-imperfetti dei quattro personaggi. Ne esce così un film interessante per capacità di osservazione, all'opposto rispetto (“beyond”) al thriller hollywoodiano e al suo principio fondante dell’intrattenimento. All’interno del tutto spicca in modo particolare la strategia della negazione del protagonista, che colpisce allo stomaco lo spettatore privandolo dell’ “oggetto” del suo affetto all'improvviso e inaspettatamente. E da qui si sviluppa il senso del film, giocato sul tema del “ritorno”, sia a livello formale che narrativo: dalle carrellate alle spalle dei protagonisti, alla scena speculare della donazione dei soldi, fino al tema finale del bosco e dei “pines” del titolo originale. Proprio là, in quel luogo (“place”) saranno gli uomini ancora una volta a determinare la propria strada, e non un destino pre-scelto da una forza esterna e superiore (tipicamente hollywoodiana).

lunedì 18 marzo 2013

Re della terra selvaggia



RE DELLA TERRA SELVAGGIA.


In un mondo per noi ormai fatto quasi solo di tecnologia, la dimensione liminare di una palude abbandonata appare come un luogo fantastico. 
Re della terra selvaggia racconta la vita di pochi sopravvissuti alla civilizzazione, persone che per godere appieno della libertà si sono rifugiati in terre dichiarate dallo stato inagibili. Si tratta di uomini e donne con problemi di alcool e droga, per cui la loro scelta di vita non è certo dettata in primis da un'aspirazione morale alla libertà, oppure si?  Non è forse questa terra selvaggia un luogo dove gli emarginati sociali possono vivere pienamente e senza giustificazioni la loro esistenza,  solo per quello che è, e aiutandosi a vicenda?Le uniche persone che appaiono infatti sottoposte a scelte altrui sembrano essere i bambini come la giovane protagonista Hushpuppy, costretti a crescere in un luogo scelto per loro da altre persone. Ma non vale forse per tutti i figli?  
La decisione di Hushpuppy alla fine del film sorprende proprio perché ci colpisce nelle nostre convinzioni di uomini civilizzati e dalla visione unidirezionale. La bambina non è solo insolitamente matura, è capace di affrontare la vita (e la morte) di petto, di tenersi stretta i valori e le persone che l'hanno cresciuta, facendoci sentire per questo inappropriati.

giovedì 14 marzo 2013

Educazione siberiana



EDUCAZIONE SIBERIANA.

Salvatores stavolta ambienta il suo film nelle vaste e infinite lande della gelata Russia, attorniandosi di una sfilza di attori stranieri, per l'adattamento del romanzo omonimo di Nicolai Lilin.
In una serie di alternanze tra flashback e flashforward, si dirama in quest'opera la vicenda di un giovane siberiano, la cui famiglia fu trapiantata come molte altre nella città di Fiume Basso durante la seconda guerra mondiale, per ordine di Stalin; e tra regole, onore siberiano e amicizia ci viene mostrato il suo percorso di formazione, fino all'approdo all'età adulta.
Sarà per via del cast internazionale e per la figura della star John Malkovich, oppure per l'ambientazione straniera, ma il film pare da subito fare l'occhiolino a un tipo di cinema estraneo alle produzioni italiane. Raramente infatti in Italia ci si è interessati a storie lontane dai nostri confini e dalla nostra gente, tanto meno nel caso del genere d'azione, essendo invece materia quasi di totale dominio dell'industria hollywoodiana. Così molti momenti sembrano forzati, in particolar modo alcuni dialoghi conclusi con battute secche e taglienti, come nello stile dei migliori action-movie, che però non trovano qui sufficiente efficacia e credibilità.
In opposizione a quanto detto finora va riconosciuto l'ottimo lavoro di caratterizzazione dei personaggi, su tutti il nonno e il nipote protagonista della storia. Attraverso una serie di scene pedagogiche lo spettatore viene informato sulla cultura e sulla storia di questi figli dei deportati siberiani della seconda guerra mondiale. In tal senso è davvero efficacie l'incipit, con i dettagli dell'altarino della Madonna armata di pistole, e dei tatuaggi sulle mani rugose e consumate del nonno. Proprio questo personaggio racchiude tutta l'essenza dell'eredità di tale popolo e rappresenta anche l'elemento più riuscito del film. Infatti, passano dalle espressioni del volto di John Malkovich sia le dure reazioni ai poteri forti dello stato, sia la stanchezza di un corpo vecchio e desideroso del riposo finale.
Al di là di tutto, il film difetta di ritmo e coinvolgimento emotivo, almeno per grandissima parte del suo protrarsi; gli stacchi tra sequenza e sequenza risultano spesso pesanti e lasciano una continua sensazione di incompletezza della scena. Ne viene fuori un film “sincopato”, che più che tenerci volutamente distanti pare non riuscire a fare l'opposto. Tutto ciò è reso ancora più evidente, per contrapposizione, dallo splendido “momento” che il film vive tra la scena dei soldi in casa e quella della prigionia del protagonista, in cui invece la messa in scena raggiunge un livello altissimo, il montaggio crea finalmente una tensione forte, e si “tocca” con gli occhi la maturazione del personaggio. Costante infine risulta il contributo della splendida fotografia di Italo Petriccione, fondata su tonalità fredde e spesso messa a dura prova (uscendone splendidamente vincente) dai molti primi piani di personaggi affiancati a finestre e porte aperte sull'esterno (soggetti quindi sia a fonti luminose esterne che interne).
In conclusione Salvatores realizza una pellicola che somiglia per molti versi a un'opera prima, caratterizzata dalla tipica assenza di unità e pure dai momenti eccellenti che ne caratterizzano i migliori esempi, nel complesso di un film incompiuto che troppo tardi riesce a comunicare davvero con lo spettatore; solo al momento in cui il passato e il presente del personaggio si ricongiungono per la resa dei conti.

martedì 26 febbraio 2013

Noi siamo infinito



NOI SIAMO INFINITO.

Noi siamo infinito è davvero una bella sorpresa. Inizia come un film sulle difficoltà adolescenziali dell'impatto con la high school, quindi diventa una storia sull'amicizia e infine si trasforma in un racconto adulto, su ciò che ti segna nella vita ma non ti determina.
L'amico a cui il protagonista scrive (forse immaginario, come ipotizza lui stesso) si rende subito uno strumento utile a catturare l'attenzione e la simpatia dello spettatore, chiamato così ad accompagnare da vicino il giovane protagonista nel suo primo giorno di scuola, e a partecipare alle sue sensazioni. Al di là dell'uso reiterato che il cinema fa di questa modalità narrativa, il film riesce a mantenere sempre una certa delicatezza di sguardo, che lascia apprezzare pienamente i passi compiuti sia dal giovane che dai suoi futuri amici, nel tentativo di “scoprire” nuove persone e di superare, assieme, i propri problemi. E proprio in questa fase il film mostra la sua “straordinarietà”. Quando ormai ci sentiamo davvero consapevoli di quel che ha vissuto il protagonista, e sollevati da come le cose sono andate a migliorare per lui, il film cambia registro e ci rivela un dramma che ci sorprende, nello stesso momento in cui sorprende il protagonista; e l'effetto è veramente esplosivo.
La recitazione dei tre principali attori risulta fondamentale per la riuscita del racconto e sorprende vedere con quale abilità questi giovani interpreti riescano ad esprimere le molte sfaccettature sia del film che dei loro personaggi; in particolare Emma Watson sembra un'attrice navigata, truccata da teenager.


giovedì 21 febbraio 2013

Promised Land



PROMISED LAND.

Ci sono casi in cui lo spettatore si sente come avvolto dalla storia che gli si pone davanti, “scaldato” da una coperta fatta di affezione per i personaggi e la loro storia. Spesso questi film appartengono al cinema americano, perché se tante sono le critiche che si possono muovere a Hollywood di certo non si può contestare la loro abilità narrativa.
Promised Land racconta la storia di due impiegati di una multinazionale del gas naturale, chiamati all'ennesima operazione di acquisto di terreni in una cittadina (povera) della provincia americana. Ma questa volta la destinazione riserverà loro la scoperta di pesanti dubbi, sul loro lavoro ma anche sulla propria identità.
Il percorso del film si snoda in una serie di scene in perfetto equilibrio, sia l'una con l'altra che nella propria composizione. Ognuna offre qualche informazione in più sull'animo dei personaggi, spesso attraverso un gioco fatto di riflessione e ironia, così frequente nel cinema americano da poter essere definito “classico”, ma di certo non semplice da realizzare. In quest'opera tutto si muove in modo apparentemente naturale, merito della sceneggiatura di Matt Damon che dimostra nuovamente quanto la sua abilità in questo campo non sia certo inferiore a quella nella recitazione. Stupisce ancora l'organicità del testo, per una storia che cresce di scena in scena senza mai volerci avvicinare troppo al personaggio, cercando invece di lasciarci lo spazio per un giudizio critico sulla vicenda, ma anche per riflettere su quale posizione avremmo preso noi in quella situazione.
Peccato solo per i rimpianti che avvia la prima scena; col suo splendido carrello a seguire il protagonista, prima dell'incontro con i “grandi” capi, aveva fatto sperare in un film con ben altri risultati dal punto di vista figurativo, come ci si aspetterebbe da Gus Van Sant. Invece quel che rimane è un'opera narrativa alla Cameron Crowe. E già questo non è poco.

giovedì 14 febbraio 2013

Argo



ARGO.

Dopo essersi fatto notare a Hollywood come sceneggiatore, e progressivamente ignorare come attore, Ben Affleck ha da qualche anno intrapreso forse la sua vera strada, spostandosi dietro la macchina da presa. E anche Argo sembra darcene conferma.
Il suo terzo film da regista narra la storia vera del recupero di sei cittadini americani, fuggiti all'attacco a un'ambasciata americana in Iran nel 1979, e nascostisi per diversi mesi nel consolato canadese della stessa località. L'intensità della trama certo non può prescindere dalla drammaticità degli eventi eppure la sceneggiatura offre molte soluzioni interessanti, in particolar modo nella resa della tensione vissuta in quei giorni da/tra i rifugiati e nell'eroica determinazione con cui il protagonista porta avanti la sua missione contro tutto e tutti. E' proprio nell'approccio a tali qualità dello script che Affleck dimostra la sua abilità in regia. Il suo sguardo classico rimane sempre in equilibrio tra i personaggi e la storia, permettendo allo spettatore di immedesimarsi sempre di più con la loro angoscia, speranza, fino alla paura della scena in aeroporto; sempre nel rispetto del genere.
L'assenza di qualsiasi giudizio politico sull'operato americano in Iran e la presenza invece della classica aurea patriottica rientrano perfettamente nello schema hollywoodiano per le storie vere, e pur facendo rimpiangere il coraggio dei primi due film del regista, lanciano Argo dritto verso gli (inevitabili) Oscar.

giovedì 31 gennaio 2013

Django Unchained



DJANGO UNCHAINED.

Se fosse il suo primo film sarebbe un capolavoro.
Ma la sfortuna dei grandi artisti è quella di elevare attorno a sé un'aura così lucente che tutto ciò che ti aspetti è che riescano ogni volta a farla brillare ancora di più. Prima o poi però si arriva a un punto dove si è talmente abbagliati da quella luce che si dura fatica a vedere le cose per come sono.
Come sempre succede con questo artista a tutto tondo, lo spettatore trascorre quasi tre ore di grande intrattenimento, alternando momenti di forte ironia a quadri poetici dalla grande carica estetica, nel contesto di una tematica importante come la schiavitù che seppur in modi sottili traspare comunque dalla divertente trama. Basti pensare alla introduzione del film, con l'eccitante accostamento tra la camminata trascinata degli schiavi nel deserto e la musica potente sullo sfondo, ma soprattutto con la prima scena notturna del film. La straordinaria fotografia rivela i piedi degli schiavi, naturalmente incatenati, che con dei movimenti confusi e irregolari mostrano tutta la sofferenza di quei corpi.
Poi da qui il film prende la sua strada tarantiniana e incomincia il divertimento. E sinceramente, è davvero un divertimento senza fine.
Premesso che non è il suo miglior film, c'è però da chiedersi chi sarebbe in grado di mettere in scena le tante situazioni corali con tale disinvoltura da renderle non ridicole, ma “veramente” ridicole... Nessuno.
Nessuno ci è riuscito finora, nonostante siano passati vent'anni dal suo esordio alla regia. Ma se questo può sembrare solo un merito in realtà ormai è diventato pure un limite. Il suo talento è così immenso e unico che gli permette anche senza “fatica” di fare prodotti che colpiscono per forza lo spettatore e lo affascinano. E' talmente bravo che non può fare film brutti. Una verità che appartiene solo a lui. Ecco che forse allora è giusto sperare in qualcosa in più.
Non esigere, si faccia attenzione, ma solo nutrire la speranza che davanti a un suo film, nella buia sala del cinema, si possa assistere a un nuovo esempio di grande regia come l'inizio di Bastardi senza gloria (per intenderci fino all'arrivo in casa del colonnello Landa), stavolta esteso a tutto il film. Ne sarebbe sicuramente capace Tarantino, ma succederà solo se troverà piacere nel farlo. Perché in fondo è questo che prima di tutto avvertiamo nei suoi film: il primo a divertirsi è proprio lui.


martedì 22 gennaio 2013

ZERO DARK THIRTY



                                                      Zero Dark Thirty TRAILER



ZERO DARK THIRTY.

Un film sulla cattura di Bin Laden poteva essere realizzato in molte maniere, ma nessuna sarebbe stata più a effetto di quella scelta da Kathryn Bigelow per il suo Zero Dark Thirty.
La caccia all'autore dell'attacco alle Torri Gemelle del 11 Settembre 2001 è durata dieci anni, e per tutto quel periodo i cittadini americani sono stati spinti da un desiderio che andava oltre la sete di giustizia: il bisogno di dare un po' di pace a quell'enorme ferita loro inferta.
Questo comune percorso è sapientemente messo in scena attraverso le vicende della protagonista del film (Jessica Chastain è semplicemente stupefacente in questo ruolo), che si fa portatrice di tutta la sofferenza ma anche della determinazione e di quella quasi a tratti irrazionale necessità di arrivare in fondo, che più volte rivela ai suoi superiori.
Ecco dove il film riesce invece a stupire.
Non c'è neppure un momento di patriottismo, neanche una scena di eroismo; l'occhio sull'azione è sempre neutro, manca qualsiasi forma di giudizio, anzi sembra esserci lo stesso rispetto nei confronti degli agenti della CIA come dei loro nemici. Anche le scene di tortura dell'inizio non rivelano alcun moralismo, tante volte ravvisato nel cinema americano dell'ultimo decennio inteso com'è a dimostrare il disprezzo della società americana per le atrocità Guantanamo. Qui fanno solo parte di un puzzle, di un percorso che, tra gli attentati di Londra e Islamabad e l'elezione di Obama, ci porta fino alla scoperta del covo. Il film non mostra niente più del necessario, e niente meno.
A questo punto vi è però un momento di rottura.
Se finora abbiamo praticamente sempre visto e sentito solo quello che ha vissuto la protagonista, proprio nella scena “decisiva” ce ne separiamo, come se adesso che il suo lavoro è fatto ella potesse fermarsi e inviare noi in missione, insieme ai soldati.
Naturalmente sappiamo già come finirà questa missione, e non ci sono dubbi sulla reale identità dell'uomo che si nasconde, eppure non assistiamo ad alcuna ellisse temporale nel racconto; anzi la ripetizione di alcune azioni (come l'esplosione delle porte) esaspera ancora di più la dilatazione temporale, facendoci vivere nella sua “reale” durata e complessità tutta la missione.
Così assistiamo anche all'uccisione di tutti i vari adulti incontrati nell'abitazione/fortezza. In particolare vediamo l'efferatezza con cui alcuni soldati sparano sui corpi già divenuti cadaveri; immagini queste che sembrano offrire il primo e unico commento allo spettatore (e non si tratta certo di un commento patriottico).
Ma ecco che l'unica uccisione che ci viene celata è proprio quella di Osama Bin Laden; vediamo solo infatti i soldati sparare a qualcuno oltre una porta. Ancora una volta il racconto si fa esile, essenziale, rosselliniano nel suo ricordare la Magnani uccisa in Roma città aperta
Kathryn Bigelow mette in atto con questo film un approccio davvero non ipotizzabile a una storia vera così pesante nella storia recente americana.


domenica 13 gennaio 2013

Cloud Atlas


                                                         Cloud Atlas TRAILER

CLOUD ATLAS.

Innamorarsi di questo film durante il suo prodigarsi tra una storia e l'altra resta assai facile, ma non inevitabile, eppure per farlo bisogno senza dubbio che lo spettatore si lasci alle spalle i molti dubbi che gli si parano davanti durante la visione. Ma non vi preoccupate di ciò, perché di certo vi verrà come un'azione involontaria, tanta è la frenesia del film.
La sceneggiatura punta a costruire una sorta di scala a chiocciola in cui le storie di diverse epoche si richiamano in un ordine sparso, che ci conducono però in una sola e precisa direzione, tenute assieme da molto più che la “evidenziata” reincarnazione dei personaggi. La voce della replicante sottolinea nei momenti delicati del film la presenza di un filo che unisce tutti gli esseri viventi; un azione buona o cattiva avrà certamente le sue conseguenze, in questa o in un'altra vita. I legami che i personaggi vivono non finiscono nella loro “storia”, ma danno vita ad altre ancora senza un ordine preciso, ma sotto la forza dell'universalità che si fa mito.

Ogni uomo nasce, muore e rinasce nei panni di un nuovo individuo, percorrendo i secoli e le ere. Le scelte compiute in una vita influiscono sulle esistenze altrui, presente e futura, in quanto tutti siamo collegati. Questo è il presupposto.
Ma cosa succede se un disegno preciso si nasconde tra le pieghe del Tempo, e una voglia sulla pelle ne diventa appunto segno? Il presupposto viene contraddetto; le decisioni che compiamo sono già previste da tempo e non possiamo più chiamarle “nostre”.
Il dilemma del libero arbitrio si ripropone, salvando il film da questo inceppamento e rendendolo a questo punto ancor più affascinante.




Ci sono volte in cui un film, così come un libro, riesce a cogliere i tratti fuggevoli del mito e ad acchiapparci dentro.
Cloud Atlas percorre cinque storie in cinque epoche diverse, dalla fine Ottocento sino a un ipotetico futuro, intrecciando tra loro le vicende di personaggi che per motivi vari e misteriosi si richiamano tra sé, rivelando allo spettatore un solo grande Disegno.
La reincarnazione si pone allora a fondamento di tutta la struttura del film, avviando un gioco continuo con lo spettatore, chiamato a riconoscere i volti degli attori sotto i più ostici costumi. Perché solo così possiamo davvero percepire questo tipo di legame.
Ogni decisione che compiamo influisce su chi ci sta attorno e su chi verrà dopo di noi, nel bene e nel male, perché tutti siamo uniti. Questo invece il principio chiave alla base di quest'opera, che sapientemente a livello di sceneggiatura è riuscita a sintetizzare la complessità del romanzo conferendosi una formula assolutamente originale.
Sembra impossibile di fronte a questa pellicola non pensare alla composizione di una sinfonia e dei suoi movimenti, come appunto accade in una delle storie con la scrittura della “Cloud Atlas” per sestetto di archi. E' impossibile altrettanto rallentare in quel misto di attenzione, concentrazione ed esaltazione, che il flusso di immagini ci pone di fronte per una durata di quasi tre ore, senza sosta.
Innamorarsi di questo tempo vi assicuro sarà facilissimo. Altrettanto lo sarà però rimanere con molte domande alla fine della visione (e non solo la prima volta), ma questo non ci deve preoccupare. Non avrà importanza di fronte ai temi universali:amore, amicizia, Fede, ingiustizia e rivalsa. Il mito appunto, che si fa vita e ago puntato al nostro essere Umani.
Ma se c'è un disegno preciso, come evidenziano le voglie sulla pelle dei personaggi, siamo poi davvero liberi di compiere delle scelte, o queste sono state già fatte per noi? Volontariamente o involontariamente, ecco anche il tema del libero arbitrio.

The Master



THE MASTER.

A volte è davvero difficile dare un senso a un film, ma pensandoci bene forse già dall’inizio ce ne fornisce uno. Ancora alla fine infatti si fa fatica a capire che cosa esattamente il protagonista offra da bere ai suoi “clienti”, e nonostante alcune domande neanch’egli dà mai una risposta precisa.
Se non puoi capire cosa bevono non puoi capire neanche il film.

Ora, diciamo pure che facciamo finta di essere degli intellettuali e riusciamo a leggere in questa pozione segreta una metafora di quella fede proclamata dal “the master” e dai suoi adepti. Così alcune scene rivelano un certo significato, e il tutto ci pare più interessante…
Il film resta comunque senza senso.

Non vuol dire che non sia chiara la trama, perché si capisce che è la storia di una grande solidarietà tra un uomo “perso” nel mondo ed un altro ancorato a una finzione, ma non per questo meno perso dell’altro; e non mancano certo dei momenti di forte emozione, che rimangono però confinati ai personaggi, lasciandoci semplici testimoni.

È tutto il resto che non è né chiaro né scuro, e ti lascia lì con la delusione di un viaggio mancato.