martedì 25 giugno 2013

Stoker


STOKER.

La silhouette di una ragazza si staglia sullo sfondo di un tramonto intenso, dai toni cupi. Le parole fuori campo sembrano appartenere a una ormai ex adolescente, disillusa e pronta a iniziare il viaggio nell'età adulta: finalmente libera, pronta ad accettare il suo destino.
Chan-wook Park si trasferisce per questo film dall'altra parte del mondo, ingaggia maestranze americane e si affida ad un cast hollywoodiano composto da un interessante mix tra giovani promettenti e attori affermati; il risultato è semplicemente un film di Chan-wook Park. L'ossessione della critica cinematografica per il tema del regista trapiantato ad Hollywood finisce infatti stavolta con un risultato più unico che raro, e probabilmente deludente per i molti già pronti ad indicare l'ennesima prostituzione al mito hollywoodiano. Stoker si pone in modo naturale come continuazione dell'opera del regista, in linea con i suoi temi più cari e con il suo modus operandi, senza compromessi ma neppure cercando di nascondere la diverso dimensione produttiva in cui è stata realizzata l'opera.
Il film racconta la storia di India, una diciannovenne che ha appena perso il padre e che si ritrova, da un giorno all'altro, a dividere la propria casa con una madre che non ha mai sopportato e con uno zio di cui non ha mai conosciuto l'esistenza. Quest'uomo si rivela da subito interessato in modo ambiguo alla ragazza, e proprio la misteriosa natura di questo individuo finirà per rivelarsi decisiva nella maturazione della giovane protagonista. Tensione, seduzione, mistero: tutte le componenti dei migliori thriller hollywoodiani. Ma anche del cinema di Park che, come al solito, trasforma il soggetto scelto in un saggio sull'essere umano. Per fare ciò due sono le vie possibili al cinema: prendere l'esempio di individui e gesta straordinari, oppure quello di individui ai limiti opposti, in bilico tra morale e immorale, tra umano e disumano. Una delle due è la strada facile, l'altra è quella di Chan-wook Park.
Eros e Thanatos sono i motivi conduttori del film: il primo dà avvio alla maturazione della protagonista, l'altro è da sempre parte di lei e della sua natura. Lo zio diventa allora la guida in grado di scortare India nel delicato passaggio all'età adulta; senza perdersi nei dubbi amletici sulla propria identità ma finendo per comprendere che chi siamo ora è frutto del nostro passato e di un futuro già segnato. Mescolare amore e morte come fa quest'autore comporta però penetrare nel territorio del macabro, ed è in questo modo che il film si esalta e decide di parlarci più in generale dell'essere umano e della sua natura, attraverso l'antiretorica e la messa in scena delle sensazioni primarie che ci rendono prima di tutto degli animali. Così l'orgasmo nel film nasce dalla morte e dal suo ricordo, mentre il montaggio, le carrellate e il crescendo musicale del brano al pianoforte rappresentano la possibilità offerta a noi spettatori di renderci partecipi di un viaggio nella nostra natura.
Chan-wook Park dimostra ancora una volta quanto il termine “autore” non sia affatto improprio in certi casi, ma anzi valorizzi una continuità di tematiche e messa in scena che possono anche non cadere sotto i dettami di una cinematografia tanto diversa e tiranna. Il sangue e la morte continuano così a “strisciare” pure lungo Stoker, all'interno di immagini costruite con una cura maniacale per la fotografia e il dettaglio; come piccoli dipinti velati di mistero.Il regista si lascia andare stavolta anche a brillanti omaggi alla macchina del cinema (cos'altro è il cinema se non una luce che infrange il buio di uno spazio chiuso come quello di un sottoscala?), e se pure ceda forse qualcosa sul piano narrativo al momento della consueta scena americana di riepilogo dei “perché” e dei “come”, il percorso di vita scelto dalla protagonista nel finale riporta tutto il film nelle mani del suo coreano autore. E la sua firma non può che essere l'ennesimo (e forse pre-tarantiniano) spruzzo di sangue, stavolta su fiori immacolati.

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