giovedì 14 marzo 2013

Educazione siberiana



EDUCAZIONE SIBERIANA.

Salvatores stavolta ambienta il suo film nelle vaste e infinite lande della gelata Russia, attorniandosi di una sfilza di attori stranieri, per l'adattamento del romanzo omonimo di Nicolai Lilin.
In una serie di alternanze tra flashback e flashforward, si dirama in quest'opera la vicenda di un giovane siberiano, la cui famiglia fu trapiantata come molte altre nella città di Fiume Basso durante la seconda guerra mondiale, per ordine di Stalin; e tra regole, onore siberiano e amicizia ci viene mostrato il suo percorso di formazione, fino all'approdo all'età adulta.
Sarà per via del cast internazionale e per la figura della star John Malkovich, oppure per l'ambientazione straniera, ma il film pare da subito fare l'occhiolino a un tipo di cinema estraneo alle produzioni italiane. Raramente infatti in Italia ci si è interessati a storie lontane dai nostri confini e dalla nostra gente, tanto meno nel caso del genere d'azione, essendo invece materia quasi di totale dominio dell'industria hollywoodiana. Così molti momenti sembrano forzati, in particolar modo alcuni dialoghi conclusi con battute secche e taglienti, come nello stile dei migliori action-movie, che però non trovano qui sufficiente efficacia e credibilità.
In opposizione a quanto detto finora va riconosciuto l'ottimo lavoro di caratterizzazione dei personaggi, su tutti il nonno e il nipote protagonista della storia. Attraverso una serie di scene pedagogiche lo spettatore viene informato sulla cultura e sulla storia di questi figli dei deportati siberiani della seconda guerra mondiale. In tal senso è davvero efficacie l'incipit, con i dettagli dell'altarino della Madonna armata di pistole, e dei tatuaggi sulle mani rugose e consumate del nonno. Proprio questo personaggio racchiude tutta l'essenza dell'eredità di tale popolo e rappresenta anche l'elemento più riuscito del film. Infatti, passano dalle espressioni del volto di John Malkovich sia le dure reazioni ai poteri forti dello stato, sia la stanchezza di un corpo vecchio e desideroso del riposo finale.
Al di là di tutto, il film difetta di ritmo e coinvolgimento emotivo, almeno per grandissima parte del suo protrarsi; gli stacchi tra sequenza e sequenza risultano spesso pesanti e lasciano una continua sensazione di incompletezza della scena. Ne viene fuori un film “sincopato”, che più che tenerci volutamente distanti pare non riuscire a fare l'opposto. Tutto ciò è reso ancora più evidente, per contrapposizione, dallo splendido “momento” che il film vive tra la scena dei soldi in casa e quella della prigionia del protagonista, in cui invece la messa in scena raggiunge un livello altissimo, il montaggio crea finalmente una tensione forte, e si “tocca” con gli occhi la maturazione del personaggio. Costante infine risulta il contributo della splendida fotografia di Italo Petriccione, fondata su tonalità fredde e spesso messa a dura prova (uscendone splendidamente vincente) dai molti primi piani di personaggi affiancati a finestre e porte aperte sull'esterno (soggetti quindi sia a fonti luminose esterne che interne).
In conclusione Salvatores realizza una pellicola che somiglia per molti versi a un'opera prima, caratterizzata dalla tipica assenza di unità e pure dai momenti eccellenti che ne caratterizzano i migliori esempi, nel complesso di un film incompiuto che troppo tardi riesce a comunicare davvero con lo spettatore; solo al momento in cui il passato e il presente del personaggio si ricongiungono per la resa dei conti.

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