mercoledì 3 luglio 2013

Holy Motors



HOLY MOTORS.

Una volta c'era il cinema, ma prima ancora di esso già qualcosa di simile stupiva e ispirava. Simile ma non uguale appunto. Il pre-cinema (formula che non rende il giusto merito ai pionieri pre-Lumière) era definito generalmente a quei tempi fotografia in movimento e, prima che la pellicola divenisse una macchina per raccontare, le immagini venivano catturare col solo scopo di registrare una performance; un fine semplicemente documentario. Che cosa sarebbe oggi il cinema se la strada perseguita fosse stata questa anziché quella narrativa?
E' la domanda alla base della complessa opera di Leos Carax intitolata Holy Motors, uscita nelle sale con ben un anno di ritardo rispetto alla sua produzione e perfino accolto a Cannes solo al secondo tentativo, dopo il rifiuto del caro Moretti nel 2012. Il film “narra” (ed è l'unica parte a cui possa essere attribuito tale verbo) i viaggi per la città di un performer a bordo di una limo, tra continui travestimenti e messe in scena di momenti di vita di altre persone/personaggi. Ora, provate a guardare tre o quattro episodi in successione, separati però l'uno dall'altro, come avviene in questo film senza cercare una connessione... impossibile! E, giustamente, inevitabile. La nostra percezione della materia cinematografica è frutto di quella lunga storia della settima arte che si è fatta in ognuno di noi, e in modo diverso, esperienza spettatoriale. Non possiamo prescindere dal collegare le scene, e soprattutto dal ricercare il legame fondamentale tra causa ed effetto. Eppure stavolta questo non vale: un banchiere prima, un mostro celtico dal richiamo barneyano dopo, un vecchio magnate etc.; se riuscite a trovare un legame mi guardo una serie intera di Don Matteo.
Leos Carax costruisce una messa in scena continua di performance, dove lo spettatore assiste al processo di metamorfosi a cui si deve sottoporre l'attore, rimanendo abasito già quando la porta della limo si apre per la prima volta, lungo il fiume Senna, facendo scendere una figura del tutto diversa da quella prevista. La cornice narrativa che tiene assieme tutte le esibizioni è proprio la causa della nostra illusione,e ricerca, di continuità, e diventa la situazione per affrontare temi cari al regista, quali la sottomissione ai media, la violazione della privacy e soprattutto la morte della pellicola. Invece gli episodi dei vari personaggi impersonificati dal protagonista sembrano essere prima di tutto citazioni dei generi cinematografici (dal thriller al musical), nonché allo stesso tempo citazioni di alcune opere, come per le scimmie del finale e di 2001: Odissea nello spazio e altre che non ho colte ma che sono sicuro siano presenti. La maestosità dei contenuti e la qualità estetica di queste performance non meritano invece di essere descritte in un campo critico così inadatto, nato in funzione dell'altra fotografia in movimento, quella cinematografica. Inoltre la complessità di significati, o l'illusione di essi, insiti in ogni episodio è veramente troppa per essere anche solo accennata a parole. Bisogna solo osservare e ammirare.
Se gli antichi inserti visivi posti qua e là sono proprio documenti del pre-cinema, più illusorio è invece il percorso attraverso cui il film travia lo spettatore nel finale: il deposito d'auto segna la fine dell'azione notturna, e la conclusione del turno lavorativo degli autisti sembra essere l'occasione per svelare finalmente i vari misteri che hanno tenuto in tensione il pubblico, e invece... le macchine iniziano a parlare tra sé, della vita e della morte di fronte al progresso (pellicola-digitale), e un invito si alza allora forte e deciso: non capite!  

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