giovedì 18 luglio 2013

Pacific Rim



PACIFIC RIM, di Guillerme del Toro .

La Terra è attaccata da enormi creature che escono da una breccia sotto l'Oceano Pacifico e l'essere umano non può far altro che riunire le sue tecnologie per costruire dei robot all'altezza della situazione.
Dopo il periodo fumettistico di Hellboy Guillerme del Toro si dedica stavolta al genere della fantascienza, attraverso una storia vicina a molti cartoon giapponesi degli anni Ottanta e che lascia ben poco spazio a qualsiasi sorpresa. Pacific Rim non è altro che il racconto della lotta tra robot e mostri alieni che minacciano l'esistenza dell'essere umano, e che è destinata a concludersi nel più classico dei modi. Eppure è proprio il modo di fare le cose che spesso determina il successo o meno di un prodotto, e in questo caso non si può ignorare la mano talentuosa di questo regista, lo sporco “realistico” delle ambientazioni e dei robot, la carica sentimentale di molte scene e una “chicca” rappresentata dalla scena in flashback della bambina attaccata da uno dei primi mostri. Se la linea narrativa centrale è in definitiva quella di mille altri film, si noterà però come al suo interno qualsiasi tema (dall'amore fraterno a quello padre/figlio(a), dai nazionalismi all'ambientalismo) sia trattato in modo leggero ma presente, capace di elevare queste due ore e venti di puro intrattenimento a un prodotto più concreto e godibile. La mano di un artista si vede, e nessuna gabbia, tematica o di genere, riesce a nasconderla.

sabato 13 luglio 2013

To the Wonder


TO THE WONDER.

Neil e Marina sono una coppia di giovani innamorati, immersi tra le bellezze della Francia e pronti ormai al grande passo verso la terra natia di lui, gli Stati Uniti. Trasferitisi in Oklahoma insieme alla figlia di lei, avuta da una precedente relazione, la coppia vive momenti di felicità e di crisi e, tra separazioni e riconongiungimenti, percorre tutta la strada del sentimeno amoroso secondo Terrence Malick.
Non conta la storia in questo ultimo film del leggendario regista texano; come al solito lo spazio dello schermo viene invece dedicato a immagini incredibili e sbalorditive, capaci di cogliere tutta l'essenza del creato che ci circonda, facendo percepire la fede in una Vita composta non da più parti, ma in cui tutto e tutti fanno parte di un unico Essere. Una visione che trova un'eccezionale messa in scena nel naturale ciclo delle acque a Mont Saint-Michel, dove da un attimo all'altro si passa dalla quiete all'alta marea, come più tardi accadrà alla giovane coppia.
Dopo aver ricostruito la storia del Bing Bang e mostratoci il dualismo che da sempre regna tra Grazia e Natura, Terrence Malick rinnova stavolta la sua continua sfida col cinema narrativo hollywoodiano trattando un tema paradossalmente più complicato come il sentimento d'amore. Nonostante sia alla portata di tutti infatti, la sua descrizione e analisi necessitano di una comprensione che nessuno può raggiugere; neppure Malick. E infatti non è questo il suo obbiettivo, né la sua pretesa. Non si tratta di analizzare un sentimento così complesso ed epico, ma di “mostrare” invece il percorso che esso assume in una qualsiasi coppia, passando dall'esaltante fase iniziale al suo indebolimento; la famosa radice che si secca, immagine più volta richiamata a voce nel film. La modalità poi in cui avviene questa messa in scena è semplicemente unica, affidata ad una visione estetica che solo questo regista ha il talento e il coraggio di continuare a esprimere ad Hollywood, attraverso una macchina da presa in movimento a 360°, sempre in contatto con cielo e terra, e quella dannata magic hour (la luce del tramonto) da sempre protagonista dei suoi film.
Questi quadri in movimento sono talmente ricchi e numerosi che fanno però sentire l'assenza di qualcosa. Manca un contesto narrativo, uno sviluppo minimo di scene, di momenti all'interno del film, che permettano allo spettatore di relazionarsi con ciò che vede. Questo c'era in The tree of Life, e perfino nel meno riuscito The New World; seppur minimamente era però possibile seguire un'evoluzione narrativa che dava la possibilità di finalizzare quella bellezza estetica di cui si disponeva in sala. In To the Wonder invece tutto resta solo accennato, intuibile per lo spettatore ma solo attraverso un eccessivo sforzo interpretativo, che allo stesso tempo compromette una parte del godimento offerto dalle immagini. Il risultato a cui si giunge in questo modo è quello di rendere purtroppo noiose anche le danzanti camminate in mezzo ai campi, segno da sempre contraddistintivo di questo immenso ed unico artista, sempre alla ricerca di una sfida.

mercoledì 3 luglio 2013

Holy Motors



HOLY MOTORS.

Una volta c'era il cinema, ma prima ancora di esso già qualcosa di simile stupiva e ispirava. Simile ma non uguale appunto. Il pre-cinema (formula che non rende il giusto merito ai pionieri pre-Lumière) era definito generalmente a quei tempi fotografia in movimento e, prima che la pellicola divenisse una macchina per raccontare, le immagini venivano catturare col solo scopo di registrare una performance; un fine semplicemente documentario. Che cosa sarebbe oggi il cinema se la strada perseguita fosse stata questa anziché quella narrativa?
E' la domanda alla base della complessa opera di Leos Carax intitolata Holy Motors, uscita nelle sale con ben un anno di ritardo rispetto alla sua produzione e perfino accolto a Cannes solo al secondo tentativo, dopo il rifiuto del caro Moretti nel 2012. Il film “narra” (ed è l'unica parte a cui possa essere attribuito tale verbo) i viaggi per la città di un performer a bordo di una limo, tra continui travestimenti e messe in scena di momenti di vita di altre persone/personaggi. Ora, provate a guardare tre o quattro episodi in successione, separati però l'uno dall'altro, come avviene in questo film senza cercare una connessione... impossibile! E, giustamente, inevitabile. La nostra percezione della materia cinematografica è frutto di quella lunga storia della settima arte che si è fatta in ognuno di noi, e in modo diverso, esperienza spettatoriale. Non possiamo prescindere dal collegare le scene, e soprattutto dal ricercare il legame fondamentale tra causa ed effetto. Eppure stavolta questo non vale: un banchiere prima, un mostro celtico dal richiamo barneyano dopo, un vecchio magnate etc.; se riuscite a trovare un legame mi guardo una serie intera di Don Matteo.
Leos Carax costruisce una messa in scena continua di performance, dove lo spettatore assiste al processo di metamorfosi a cui si deve sottoporre l'attore, rimanendo abasito già quando la porta della limo si apre per la prima volta, lungo il fiume Senna, facendo scendere una figura del tutto diversa da quella prevista. La cornice narrativa che tiene assieme tutte le esibizioni è proprio la causa della nostra illusione,e ricerca, di continuità, e diventa la situazione per affrontare temi cari al regista, quali la sottomissione ai media, la violazione della privacy e soprattutto la morte della pellicola. Invece gli episodi dei vari personaggi impersonificati dal protagonista sembrano essere prima di tutto citazioni dei generi cinematografici (dal thriller al musical), nonché allo stesso tempo citazioni di alcune opere, come per le scimmie del finale e di 2001: Odissea nello spazio e altre che non ho colte ma che sono sicuro siano presenti. La maestosità dei contenuti e la qualità estetica di queste performance non meritano invece di essere descritte in un campo critico così inadatto, nato in funzione dell'altra fotografia in movimento, quella cinematografica. Inoltre la complessità di significati, o l'illusione di essi, insiti in ogni episodio è veramente troppa per essere anche solo accennata a parole. Bisogna solo osservare e ammirare.
Se gli antichi inserti visivi posti qua e là sono proprio documenti del pre-cinema, più illusorio è invece il percorso attraverso cui il film travia lo spettatore nel finale: il deposito d'auto segna la fine dell'azione notturna, e la conclusione del turno lavorativo degli autisti sembra essere l'occasione per svelare finalmente i vari misteri che hanno tenuto in tensione il pubblico, e invece... le macchine iniziano a parlare tra sé, della vita e della morte di fronte al progresso (pellicola-digitale), e un invito si alza allora forte e deciso: non capite!  

venerdì 28 giugno 2013

Man of Steel ENGLISH REVIEW



MAN OF STEEL.

Zack Sneider, one of the most talented director of last generation, takes the responsability of play once again the story of Superman, after just seven years since Bryan Singer's version. For this occasion he choses the reboot solution, very frequent nowadays.
If it's not possible to subvert the structure of the story, Snyder decides to compose in a different way the events of Clark Kent's life, threw an interesting scheme of flashbacks and introducing just in the beginning the key enemy of the movie. It seems reasonable the fact that the first idea was to change the point of view upon a story known alla over the world, giving instead to the viewer a narration starting far from the main character and reaching him in medias res, when the enemy is just ready for the battle. The problem is that, as the Bill from the Tarantino movie tells, Superman is not a human being; he doesn't decide to become Superman, and we don't know who he is (and what he can do) at the beginning, but we discover it at the same time he discovers himself . However when you can just have a look to his adolescence threw some flashbacks, and your point of view is not the same of Superman for at least thirty minutes, there can't be fascination.
Furthermore also the central theme of Superman's dilemma between human beings and Krypton people is shown more by words than images, with dialogues that become redundant in this way.
The final result of this reboot is lack of fascination; also when the movie becomes full of action the viewing is only spectacular, no sentiment in it. And Superman's shout, at the end, echoes in a mind already far away from theater.

giovedì 27 giugno 2013

L'uomo d'acciaio



L'UOMO D'ACCIAIO.

Zack Snyder, regista tra i più stimati degli ultimi dieci anni, si prende a carico la grave responsabilità di rimettere in scena, dopo soli sette anni dall'ultima comparsata, la storia di Superman, attraverso un operazione che ultimamente ha trovato non pochi esiti positivi, il reboot.
Senza poter chiaramente stravolgere la struttura del racconto, il film ricompone in modo originale le fasi dell'esistenza del protagonista, giocando su un interessante schema a flashbacks, e optando per uno svelamento immediato dell'identità del nemico, introdotto da un prologo piuttosto “approfondito” sulle vicende che portano il giovane Kal El sul pianeta Terra. La considerazione alla base di quest'opera è evidentemente la necessità di cambiare il punto di vista su una storia che tutti conoscono, facendo in modo che la narrazione parta alla larga rispetto al suo protagonista e lo incontri invece solo in medias res, ovvero quando il nemico è pronto al confronto. Ma la particolarità di questo supereroe, così come sottolineava a suo tempo il Bill di Tarantino, è quella di non essere un umano; il suo percorso per divenire un eroe non è frutto di una sua scelta, e l'identità di questo individuo non è definita sin dall'inizio, ma è anzi il vero obbiettivo del viaggio di Superman. Quando la scoperta dei suoi poteri viene confinata nei soli flashbacks e il punto di vista dello spettatore per una buona mezz'ora non viene fatto coincidere con quello del protagonista, ma con quello di personaggi secondari, accade che il coinvolgimento nel percorso di questo supereroe sia limitato, oppure del tutto assente.
La crisi di identità del protagonista è sicuramente il punto centrale dell'analisi di Snyder, che realizza probabilmente la scena più forte e intensa proprio per uno dei momenti determinanti in questo senso, ovvero il sacrificio del padre terrestre; ma per tutto il resto del film invece la questione è solo oggetto di parole, e se il dilemma che vive il protagonista, diviso tra i due popoli, risalta allo spettatore non è per effetto delle immagini ma per quello di dialoghi ridondanti.
L'esito finale di questo reboot è una mancanza di interesse per le vicende raccontate, che anche quando si fanno colme di azione lasciano il pubblico a una visione spettacolare, ma priva di sentimento. L'urlo di Superman, dopo aver eliminato l'unico altro superstite di Krypton, echeggia così nel vuoto di una mente che ha già da parecchi minuti la sala.

martedì 25 giugno 2013

Stoker


STOKER.

La silhouette di una ragazza si staglia sullo sfondo di un tramonto intenso, dai toni cupi. Le parole fuori campo sembrano appartenere a una ormai ex adolescente, disillusa e pronta a iniziare il viaggio nell'età adulta: finalmente libera, pronta ad accettare il suo destino.
Chan-wook Park si trasferisce per questo film dall'altra parte del mondo, ingaggia maestranze americane e si affida ad un cast hollywoodiano composto da un interessante mix tra giovani promettenti e attori affermati; il risultato è semplicemente un film di Chan-wook Park. L'ossessione della critica cinematografica per il tema del regista trapiantato ad Hollywood finisce infatti stavolta con un risultato più unico che raro, e probabilmente deludente per i molti già pronti ad indicare l'ennesima prostituzione al mito hollywoodiano. Stoker si pone in modo naturale come continuazione dell'opera del regista, in linea con i suoi temi più cari e con il suo modus operandi, senza compromessi ma neppure cercando di nascondere la diverso dimensione produttiva in cui è stata realizzata l'opera.
Il film racconta la storia di India, una diciannovenne che ha appena perso il padre e che si ritrova, da un giorno all'altro, a dividere la propria casa con una madre che non ha mai sopportato e con uno zio di cui non ha mai conosciuto l'esistenza. Quest'uomo si rivela da subito interessato in modo ambiguo alla ragazza, e proprio la misteriosa natura di questo individuo finirà per rivelarsi decisiva nella maturazione della giovane protagonista. Tensione, seduzione, mistero: tutte le componenti dei migliori thriller hollywoodiani. Ma anche del cinema di Park che, come al solito, trasforma il soggetto scelto in un saggio sull'essere umano. Per fare ciò due sono le vie possibili al cinema: prendere l'esempio di individui e gesta straordinari, oppure quello di individui ai limiti opposti, in bilico tra morale e immorale, tra umano e disumano. Una delle due è la strada facile, l'altra è quella di Chan-wook Park.
Eros e Thanatos sono i motivi conduttori del film: il primo dà avvio alla maturazione della protagonista, l'altro è da sempre parte di lei e della sua natura. Lo zio diventa allora la guida in grado di scortare India nel delicato passaggio all'età adulta; senza perdersi nei dubbi amletici sulla propria identità ma finendo per comprendere che chi siamo ora è frutto del nostro passato e di un futuro già segnato. Mescolare amore e morte come fa quest'autore comporta però penetrare nel territorio del macabro, ed è in questo modo che il film si esalta e decide di parlarci più in generale dell'essere umano e della sua natura, attraverso l'antiretorica e la messa in scena delle sensazioni primarie che ci rendono prima di tutto degli animali. Così l'orgasmo nel film nasce dalla morte e dal suo ricordo, mentre il montaggio, le carrellate e il crescendo musicale del brano al pianoforte rappresentano la possibilità offerta a noi spettatori di renderci partecipi di un viaggio nella nostra natura.
Chan-wook Park dimostra ancora una volta quanto il termine “autore” non sia affatto improprio in certi casi, ma anzi valorizzi una continuità di tematiche e messa in scena che possono anche non cadere sotto i dettami di una cinematografia tanto diversa e tiranna. Il sangue e la morte continuano così a “strisciare” pure lungo Stoker, all'interno di immagini costruite con una cura maniacale per la fotografia e il dettaglio; come piccoli dipinti velati di mistero.Il regista si lascia andare stavolta anche a brillanti omaggi alla macchina del cinema (cos'altro è il cinema se non una luce che infrange il buio di uno spazio chiuso come quello di un sottoscala?), e se pure ceda forse qualcosa sul piano narrativo al momento della consueta scena americana di riepilogo dei “perché” e dei “come”, il percorso di vita scelto dalla protagonista nel finale riporta tutto il film nelle mani del suo coreano autore. E la sua firma non può che essere l'ennesimo (e forse pre-tarantiniano) spruzzo di sangue, stavolta su fiori immacolati.

venerdì 21 giugno 2013

Star Trek Into Darkness




STAR TREK INTO DARKNESS.

Quattro anni dopo il primo tuffo nel passato pre-serie tv, J.J. Abrams torna a misurarsi con la celebre sagra di Star Trek e con i suoi famosi protagonisti in questo Into Darkness dai colori accesi e toni cupi.
Di fronte a un attentato terroristico ai danni di una sede militare, la flotta stellare decide di avviare una caccia all'uomo per la cattura del mandante, ormai scappato però nelle terre limitrofe e out limits dei pericolosi Klingon. Di fronte alla concreta possibilità di far scoppiare una guerra con questo popolo, l'equipaggio della Enterprise dovrà decidere come procedere con una missione tutt'altro che trasparente, come invece gli è stata presentata.
Come spesso successo negli ultimi dieci anni di cinema hollywoodiano, in particolar modo nel genere fantascientifico, al centro della scena vengono disposti il tema del terrorismo e il suo ambiguo legame con gli apparati politici che dovrebbero rappresentare la difesa dei cittadini. L'eredità dell'Undici Settembre 2001 sul cinema è diventata una nuova dimostrazione dell'assoluta abilità di Hollywood di percepire lo stato d'animo e le paure della società circostante e di filtrare da esse ciò che più si adatta al successo di botteghino. Da questo punto di vista anche l'operazione del 3D risulta in funzione del primo, e naturale, obbiettivo di un'industria grande quanto il cinema hollywoodiano, capace di imporre le proprie strategie di marketing anche su un regista (tra i più “potenti”) che ha invece appena compiuto una scelta originale ed anacronistica, realizzando la sua opera in pellicola.
Ma molti altri sono i segni di un approccio originale e interessante a questo genere, da parte di Abrams. Se il primo capitolo era all'insegna dell'azione, nel nuovo film è la relazione tra i personaggi a primeggiare, soprattutto quella tra Kirk e Spoke. Sin dall'inizio è la loro amicizia ad essere al centro della storia, e, anche nel proseguo, lo sguardo costantemente puntato sui due non fa altro che rendere la “missione” solo un contesto e un pretesto per un'indagine ritenuta molto più interessante dal regista. Anche il cattivo di turno rompe con gli schemi classici del genere; prima assume i panni del nemico cinico, quindi, come prevedibile, si svela come un incompreso alleato. Ma nel finale la situazione a sorpresa si ribalta nuovamente, e il personaggio si mostra come il crudele antagonista da sconfiggere.
Che l'abilità di questo regista si adattasse in modo perfetto col genere d'azione lo si era capito da tempo, e viene ribadito anche qui già dal preludio del pianeta minacciato dal vulcano. Eppure stavolta a farsi notevole è lo sguardo offerto all'intimità dei personaggi, con una profondità che mai Abrams era riuscito a trovare nel precedente (e personale) Super 8. La scena finale in cui Kirk e Spoke sono divisi da una lastra di vetro non sarà certo originale per contenuti, ma funziona splendidamente: colpisce lo spettatore e frammenta senza disturbo alcuno l'azione. Altro segno di lavoro all'interno del genere, in cui solo i più grandi si sono finora cimentati con successo.