HOLY MOTORS.
Una volta c'era il
cinema, ma prima ancora di esso già qualcosa di simile stupiva e
ispirava. Simile ma non uguale appunto. Il pre-cinema (formula che
non rende il giusto merito ai pionieri pre-Lumière) era definito
generalmente a quei tempi fotografia in movimento e, prima che la
pellicola divenisse una macchina per raccontare, le immagini venivano
catturare col solo scopo di registrare una performance; un fine
semplicemente documentario. Che cosa sarebbe oggi il cinema se la
strada perseguita fosse stata questa anziché quella narrativa?
E' la domanda alla base
della complessa opera di Leos Carax intitolata Holy Motors,
uscita nelle sale con ben un anno di ritardo rispetto alla sua
produzione e perfino accolto a Cannes solo al secondo tentativo, dopo
il rifiuto del caro Moretti nel 2012. Il film “narra” (ed è
l'unica parte a cui possa essere attribuito tale verbo) i viaggi per
la città di un performer
a bordo di una limo, tra continui travestimenti e messe in scena di
momenti di vita di altre persone/personaggi. Ora, provate a guardare
tre o quattro episodi in successione, separati però l'uno
dall'altro, come avviene in questo film senza cercare una
connessione... impossibile! E, giustamente, inevitabile. La nostra
percezione della materia cinematografica è frutto di quella lunga
storia della settima arte che si è fatta in ognuno di noi, e in modo
diverso, esperienza spettatoriale. Non possiamo prescindere dal
collegare le scene, e soprattutto dal ricercare il legame
fondamentale tra causa ed effetto. Eppure stavolta questo non vale:
un banchiere prima, un mostro celtico dal richiamo barneyano dopo, un
vecchio magnate etc.; se riuscite a trovare un legame mi guardo una
serie intera di Don Matteo.
Leos
Carax costruisce una messa in scena continua di performance, dove lo
spettatore assiste al processo di metamorfosi a cui si deve
sottoporre l'attore, rimanendo abasito già quando la porta della
limo si apre per la prima volta, lungo il fiume Senna, facendo
scendere una figura del tutto diversa da quella prevista. La cornice
narrativa che tiene assieme tutte le esibizioni è proprio la causa
della nostra illusione,e ricerca, di continuità, e diventa la
situazione per affrontare temi cari al regista, quali la
sottomissione ai media, la violazione della privacy e soprattutto la
morte della pellicola. Invece gli episodi dei vari personaggi
impersonificati dal protagonista sembrano essere prima di tutto
citazioni dei generi cinematografici (dal thriller al musical),
nonché allo stesso tempo citazioni di alcune opere, come per le
scimmie del finale e di 2001: Odissea nello spazio
e altre che non ho colte ma che sono sicuro siano presenti. La
maestosità dei contenuti e la qualità estetica di queste
performance non meritano invece di essere descritte in un campo
critico così inadatto, nato in funzione dell'altra fotografia in
movimento, quella cinematografica. Inoltre la complessità di
significati, o l'illusione di essi, insiti in ogni episodio è
veramente troppa per essere anche solo accennata a parole. Bisogna
solo osservare e ammirare.
Se
gli antichi inserti visivi posti qua e là sono proprio documenti del
pre-cinema, più illusorio è invece il percorso attraverso cui il
film travia lo spettatore nel finale: il deposito d'auto segna la
fine dell'azione notturna, e la conclusione del turno lavorativo
degli autisti sembra essere l'occasione per svelare finalmente i vari
misteri che hanno tenuto in tensione il pubblico, e invece... le
macchine iniziano a parlare tra sé, della vita e della morte di
fronte al progresso (pellicola-digitale), e un invito si alza allora
forte e deciso: non capite!