EDUCAZIONE SIBERIANA.
Salvatores stavolta ambienta il suo
film nelle vaste e infinite lande della gelata Russia, attorniandosi
di una sfilza di attori stranieri, per l'adattamento del romanzo
omonimo di Nicolai Lilin.
In una serie di alternanze tra
flashback e flashforward, si dirama in quest'opera la vicenda di un
giovane siberiano, la cui famiglia fu trapiantata come molte altre
nella città di Fiume Basso durante la seconda guerra mondiale, per
ordine di Stalin; e tra regole, onore siberiano e amicizia ci viene
mostrato il suo percorso di formazione, fino all'approdo all'età
adulta.
Sarà per via del cast internazionale e
per la figura della star John Malkovich, oppure per l'ambientazione
straniera, ma il film pare da subito fare l'occhiolino a un tipo di
cinema estraneo alle produzioni italiane. Raramente infatti in Italia
ci si è interessati a storie lontane dai nostri confini e dalla
nostra gente, tanto meno nel caso del genere d'azione, essendo invece
materia quasi di totale dominio dell'industria hollywoodiana. Così
molti momenti sembrano forzati, in particolar modo alcuni dialoghi
conclusi con battute secche e taglienti, come nello stile dei
migliori action-movie, che però non trovano qui sufficiente
efficacia e credibilità.
In opposizione a quanto detto finora va
riconosciuto l'ottimo lavoro di caratterizzazione dei personaggi, su
tutti il nonno e il nipote protagonista della storia. Attraverso una
serie di scene pedagogiche lo spettatore viene informato sulla
cultura e sulla storia di questi figli dei deportati siberiani della
seconda guerra mondiale. In tal senso è davvero efficacie l'incipit,
con i dettagli dell'altarino della Madonna armata di pistole, e dei
tatuaggi sulle mani rugose e consumate del nonno. Proprio questo
personaggio racchiude tutta l'essenza dell'eredità di tale popolo e
rappresenta anche l'elemento più riuscito del film. Infatti, passano
dalle espressioni del volto di John Malkovich sia le dure reazioni ai
poteri forti dello stato, sia la stanchezza di un corpo vecchio e
desideroso del riposo finale.
Al di là di tutto, il film difetta di
ritmo e coinvolgimento emotivo, almeno per grandissima parte del suo
protrarsi; gli stacchi tra sequenza e sequenza risultano spesso
pesanti e lasciano una continua sensazione di incompletezza della
scena. Ne viene fuori un film “sincopato”, che più che tenerci
volutamente distanti pare non riuscire a fare l'opposto. Tutto ciò è
reso ancora più evidente, per contrapposizione, dallo splendido
“momento” che il film vive tra la scena dei soldi in casa e
quella della prigionia del protagonista, in cui invece la messa in
scena raggiunge un livello altissimo, il montaggio crea finalmente
una tensione forte, e si “tocca” con gli occhi la maturazione del
personaggio. Costante infine risulta il contributo della splendida
fotografia di Italo Petriccione, fondata su tonalità fredde e spesso
messa a dura prova (uscendone splendidamente vincente) dai molti
primi piani di personaggi affiancati a finestre e porte aperte
sull'esterno (soggetti quindi sia a fonti luminose esterne che
interne).
In conclusione Salvatores realizza una
pellicola che somiglia per molti versi a un'opera prima,
caratterizzata dalla tipica assenza di unità e pure dai momenti
eccellenti che ne caratterizzano i migliori esempi, nel complesso di
un film incompiuto che troppo tardi riesce a comunicare davvero con
lo spettatore; solo al momento in cui il passato e il presente del
personaggio si ricongiungono per la resa dei conti.