sabato 11 maggio 2013

Effetti collaterali




EFFETTI COLLATERALI.


Le porte del carcere si aprono e una giovane moglie può finalmente riabbracciare il marito e riprendere in mano le redini del proprio destino. Ma la mente umana può nascondere brutte sorprese, e a niente servono a volte neppure i mille rimedi farmacologici che il mercato offre.
La questione morale della libera circolazione dei farmaci psichici è al centro del nuovo film di Steven Soderbergh che, attraverso un racconto sempre vivo e ricco di colpi di scena, riesce a tenere alta l'attenzione e crescente l'interesse. Merito soprattutto del lavoro impegnativo che lo spettatore è chiamato a compiere per arrivare a conoscere la verità; sempre passo passo col protagonista Jude Law.
E chissà che anche lo spettatore non sia vittima anch'egli di un effetto collaterale, forse della troppa fiducia verso chi mostra questa storia... non é forse strano vedere già all'inizio il palazzo dove tutto si conclude?  

martedì 16 aprile 2013

Come un tuono


COME UN TUONO.




Le azioni che compiamo hanno le loro conseguenze, a volte prevedibili, a volte meno, ma il loro peso non cade solo su di noi ma anche sui nostri figli: questo, il messaggio del film. Come un tuono (A Place Beyond the Pines) racconta la storia di quattro vite riunite in due generazioni, e intrecciate tra loro come in una ragnatela, tessuta sulle scelte di vita dei loro protagonisti.
Derek Cianfrance opta per una struttura narrativa che si rifiuta di fare del “destino” l'elemento cardine del suo sviluppo, concentrata invece sull'essere umani-imperfetti dei quattro personaggi. Ne esce così un film interessante per capacità di osservazione, all'opposto rispetto (“beyond”) al thriller hollywoodiano e al suo principio fondante dell’intrattenimento. All’interno del tutto spicca in modo particolare la strategia della negazione del protagonista, che colpisce allo stomaco lo spettatore privandolo dell’ “oggetto” del suo affetto all'improvviso e inaspettatamente. E da qui si sviluppa il senso del film, giocato sul tema del “ritorno”, sia a livello formale che narrativo: dalle carrellate alle spalle dei protagonisti, alla scena speculare della donazione dei soldi, fino al tema finale del bosco e dei “pines” del titolo originale. Proprio là, in quel luogo (“place”) saranno gli uomini ancora una volta a determinare la propria strada, e non un destino pre-scelto da una forza esterna e superiore (tipicamente hollywoodiana).

lunedì 18 marzo 2013

Re della terra selvaggia



RE DELLA TERRA SELVAGGIA.


In un mondo per noi ormai fatto quasi solo di tecnologia, la dimensione liminare di una palude abbandonata appare come un luogo fantastico. 
Re della terra selvaggia racconta la vita di pochi sopravvissuti alla civilizzazione, persone che per godere appieno della libertà si sono rifugiati in terre dichiarate dallo stato inagibili. Si tratta di uomini e donne con problemi di alcool e droga, per cui la loro scelta di vita non è certo dettata in primis da un'aspirazione morale alla libertà, oppure si?  Non è forse questa terra selvaggia un luogo dove gli emarginati sociali possono vivere pienamente e senza giustificazioni la loro esistenza,  solo per quello che è, e aiutandosi a vicenda?Le uniche persone che appaiono infatti sottoposte a scelte altrui sembrano essere i bambini come la giovane protagonista Hushpuppy, costretti a crescere in un luogo scelto per loro da altre persone. Ma non vale forse per tutti i figli?  
La decisione di Hushpuppy alla fine del film sorprende proprio perché ci colpisce nelle nostre convinzioni di uomini civilizzati e dalla visione unidirezionale. La bambina non è solo insolitamente matura, è capace di affrontare la vita (e la morte) di petto, di tenersi stretta i valori e le persone che l'hanno cresciuta, facendoci sentire per questo inappropriati.

giovedì 14 marzo 2013

Educazione siberiana



EDUCAZIONE SIBERIANA.

Salvatores stavolta ambienta il suo film nelle vaste e infinite lande della gelata Russia, attorniandosi di una sfilza di attori stranieri, per l'adattamento del romanzo omonimo di Nicolai Lilin.
In una serie di alternanze tra flashback e flashforward, si dirama in quest'opera la vicenda di un giovane siberiano, la cui famiglia fu trapiantata come molte altre nella città di Fiume Basso durante la seconda guerra mondiale, per ordine di Stalin; e tra regole, onore siberiano e amicizia ci viene mostrato il suo percorso di formazione, fino all'approdo all'età adulta.
Sarà per via del cast internazionale e per la figura della star John Malkovich, oppure per l'ambientazione straniera, ma il film pare da subito fare l'occhiolino a un tipo di cinema estraneo alle produzioni italiane. Raramente infatti in Italia ci si è interessati a storie lontane dai nostri confini e dalla nostra gente, tanto meno nel caso del genere d'azione, essendo invece materia quasi di totale dominio dell'industria hollywoodiana. Così molti momenti sembrano forzati, in particolar modo alcuni dialoghi conclusi con battute secche e taglienti, come nello stile dei migliori action-movie, che però non trovano qui sufficiente efficacia e credibilità.
In opposizione a quanto detto finora va riconosciuto l'ottimo lavoro di caratterizzazione dei personaggi, su tutti il nonno e il nipote protagonista della storia. Attraverso una serie di scene pedagogiche lo spettatore viene informato sulla cultura e sulla storia di questi figli dei deportati siberiani della seconda guerra mondiale. In tal senso è davvero efficacie l'incipit, con i dettagli dell'altarino della Madonna armata di pistole, e dei tatuaggi sulle mani rugose e consumate del nonno. Proprio questo personaggio racchiude tutta l'essenza dell'eredità di tale popolo e rappresenta anche l'elemento più riuscito del film. Infatti, passano dalle espressioni del volto di John Malkovich sia le dure reazioni ai poteri forti dello stato, sia la stanchezza di un corpo vecchio e desideroso del riposo finale.
Al di là di tutto, il film difetta di ritmo e coinvolgimento emotivo, almeno per grandissima parte del suo protrarsi; gli stacchi tra sequenza e sequenza risultano spesso pesanti e lasciano una continua sensazione di incompletezza della scena. Ne viene fuori un film “sincopato”, che più che tenerci volutamente distanti pare non riuscire a fare l'opposto. Tutto ciò è reso ancora più evidente, per contrapposizione, dallo splendido “momento” che il film vive tra la scena dei soldi in casa e quella della prigionia del protagonista, in cui invece la messa in scena raggiunge un livello altissimo, il montaggio crea finalmente una tensione forte, e si “tocca” con gli occhi la maturazione del personaggio. Costante infine risulta il contributo della splendida fotografia di Italo Petriccione, fondata su tonalità fredde e spesso messa a dura prova (uscendone splendidamente vincente) dai molti primi piani di personaggi affiancati a finestre e porte aperte sull'esterno (soggetti quindi sia a fonti luminose esterne che interne).
In conclusione Salvatores realizza una pellicola che somiglia per molti versi a un'opera prima, caratterizzata dalla tipica assenza di unità e pure dai momenti eccellenti che ne caratterizzano i migliori esempi, nel complesso di un film incompiuto che troppo tardi riesce a comunicare davvero con lo spettatore; solo al momento in cui il passato e il presente del personaggio si ricongiungono per la resa dei conti.

martedì 26 febbraio 2013

Noi siamo infinito



NOI SIAMO INFINITO.

Noi siamo infinito è davvero una bella sorpresa. Inizia come un film sulle difficoltà adolescenziali dell'impatto con la high school, quindi diventa una storia sull'amicizia e infine si trasforma in un racconto adulto, su ciò che ti segna nella vita ma non ti determina.
L'amico a cui il protagonista scrive (forse immaginario, come ipotizza lui stesso) si rende subito uno strumento utile a catturare l'attenzione e la simpatia dello spettatore, chiamato così ad accompagnare da vicino il giovane protagonista nel suo primo giorno di scuola, e a partecipare alle sue sensazioni. Al di là dell'uso reiterato che il cinema fa di questa modalità narrativa, il film riesce a mantenere sempre una certa delicatezza di sguardo, che lascia apprezzare pienamente i passi compiuti sia dal giovane che dai suoi futuri amici, nel tentativo di “scoprire” nuove persone e di superare, assieme, i propri problemi. E proprio in questa fase il film mostra la sua “straordinarietà”. Quando ormai ci sentiamo davvero consapevoli di quel che ha vissuto il protagonista, e sollevati da come le cose sono andate a migliorare per lui, il film cambia registro e ci rivela un dramma che ci sorprende, nello stesso momento in cui sorprende il protagonista; e l'effetto è veramente esplosivo.
La recitazione dei tre principali attori risulta fondamentale per la riuscita del racconto e sorprende vedere con quale abilità questi giovani interpreti riescano ad esprimere le molte sfaccettature sia del film che dei loro personaggi; in particolare Emma Watson sembra un'attrice navigata, truccata da teenager.


giovedì 21 febbraio 2013

Promised Land



PROMISED LAND.

Ci sono casi in cui lo spettatore si sente come avvolto dalla storia che gli si pone davanti, “scaldato” da una coperta fatta di affezione per i personaggi e la loro storia. Spesso questi film appartengono al cinema americano, perché se tante sono le critiche che si possono muovere a Hollywood di certo non si può contestare la loro abilità narrativa.
Promised Land racconta la storia di due impiegati di una multinazionale del gas naturale, chiamati all'ennesima operazione di acquisto di terreni in una cittadina (povera) della provincia americana. Ma questa volta la destinazione riserverà loro la scoperta di pesanti dubbi, sul loro lavoro ma anche sulla propria identità.
Il percorso del film si snoda in una serie di scene in perfetto equilibrio, sia l'una con l'altra che nella propria composizione. Ognuna offre qualche informazione in più sull'animo dei personaggi, spesso attraverso un gioco fatto di riflessione e ironia, così frequente nel cinema americano da poter essere definito “classico”, ma di certo non semplice da realizzare. In quest'opera tutto si muove in modo apparentemente naturale, merito della sceneggiatura di Matt Damon che dimostra nuovamente quanto la sua abilità in questo campo non sia certo inferiore a quella nella recitazione. Stupisce ancora l'organicità del testo, per una storia che cresce di scena in scena senza mai volerci avvicinare troppo al personaggio, cercando invece di lasciarci lo spazio per un giudizio critico sulla vicenda, ma anche per riflettere su quale posizione avremmo preso noi in quella situazione.
Peccato solo per i rimpianti che avvia la prima scena; col suo splendido carrello a seguire il protagonista, prima dell'incontro con i “grandi” capi, aveva fatto sperare in un film con ben altri risultati dal punto di vista figurativo, come ci si aspetterebbe da Gus Van Sant. Invece quel che rimane è un'opera narrativa alla Cameron Crowe. E già questo non è poco.

giovedì 14 febbraio 2013

Argo



ARGO.

Dopo essersi fatto notare a Hollywood come sceneggiatore, e progressivamente ignorare come attore, Ben Affleck ha da qualche anno intrapreso forse la sua vera strada, spostandosi dietro la macchina da presa. E anche Argo sembra darcene conferma.
Il suo terzo film da regista narra la storia vera del recupero di sei cittadini americani, fuggiti all'attacco a un'ambasciata americana in Iran nel 1979, e nascostisi per diversi mesi nel consolato canadese della stessa località. L'intensità della trama certo non può prescindere dalla drammaticità degli eventi eppure la sceneggiatura offre molte soluzioni interessanti, in particolar modo nella resa della tensione vissuta in quei giorni da/tra i rifugiati e nell'eroica determinazione con cui il protagonista porta avanti la sua missione contro tutto e tutti. E' proprio nell'approccio a tali qualità dello script che Affleck dimostra la sua abilità in regia. Il suo sguardo classico rimane sempre in equilibrio tra i personaggi e la storia, permettendo allo spettatore di immedesimarsi sempre di più con la loro angoscia, speranza, fino alla paura della scena in aeroporto; sempre nel rispetto del genere.
L'assenza di qualsiasi giudizio politico sull'operato americano in Iran e la presenza invece della classica aurea patriottica rientrano perfettamente nello schema hollywoodiano per le storie vere, e pur facendo rimpiangere il coraggio dei primi due film del regista, lanciano Argo dritto verso gli (inevitabili) Oscar.