ALL THE REAL GIRLS.
A volte può far piacere trovarsi di
fronte a una scena di cui non si percepisce un significato preciso, e
per cui si rende inevitabile da parte nostra una ricerca, personale e
“in diretta”. Certamente non capita di fronte a uno dei tanti
film romantici provenienti da Hollywood; ma per fortuna esiste anche
l'industria del cinema indipendente americano, che ci mostra ogni
tanto qualcosa di nuovo. Così è stato con All The Real Girls.
Il film di David Gordon Green racconta
la storia di un amore confuso tra una adolescente e un quasi
trentenne nella provincia americana, tra entusiasmi iniziali e
difficoltà successive che sembreranno irrimediabili. Ma dietro alle
evoluzioni della loro storia stanno ragioni che non vengono mai
dichiarate allo spettatore, parti di una irrazionalità del
sentimento amoroso che così facendo non coinvolge più solo i
protagonisti ma anche noi spettatori. D'altra parte se neppure gli
innamorati possono dare una spiegazione razionale all'amore, perché
dovremmo poterlo fare noi ? Si tratta di una scelta coraggiosa e
precisa da parte del film.
Ma questa indeterminatezza si fa
principio fondante anche delle stesse immagini; e allora accade di
trovarsi di fronte a scene surreali, sia per la loro collocazione
nella struttura narrativa del film sia per l'estetica delle loro
immagini. Spesso si tratta di ambienti naturali, illuminati da luce
naturale, ma carichi di un'energia metafisica, che fanno pensare
all'arte unica di Terrence Malick.
Forse quest'opera lascia perfino troppe
domande senza risposta al suo spettatore, ma resta davvero da
apprezzare il tentativo, in gran parte riuscito, di disegnare una
propria strada all'interno del cinema di genere. Una strada di
poesia. La strada dell'incertezza.
SOMEWHERE, C' È
CHI PUÒ.
Stiamo
davanti allo schermo e ci annoiamo. Non è un granché in generale,
ma in questo caso è un buon inizio.
Il
protagonista è un famoso attore di Hollywood che passa le sue
giornate nel non-dolce far niente, tra premiere del nuovo film,
interviste, premiazioni e seduzione, segregato per la maggior parte
del tempo in una camera di albergo che nonostante sia la sua dimora
non è casa sua. Solo l'improvvisa convivenza con la figlia rompe
questa circolarità, si inserisce al suo interno, e senza modificarne
in alcun modo l'entità la conduce alla sua fine. Non ci è mostrato
alcun cambiamento concreto nella vita del protagonista, ma soltanto
gli effetti provocati nel suo personaggio dalla scossa trasmessa
dalla figlia.
Sofia
Coppola non si impegna certo con una storia mai vista e sentita (il
mondo è pieno di star circondate dalle masse e chiuse nella propria
irreparabile solitudine), e trova proprio in questa assenza di
originalità il campo dove creare un'autentica esperienza di
immedesimazione tra lo spettatore e il personaggio.
L'attore
johnny Franco è sdraiato sul letto e osserva le due ballerine alle
prese con una doppia lap dance. Il suo sguardo è tutt'altro che
partecipe e la durate e fissità della sua soggetiva ci evidenziano
cosa sta in realtà vedendo lui stesso in quella immagine.
Più
avanti lo troviamo a sedere in attesa che la maschera di cera che gli
è stata applicata per le prove di un film si asciughi. Non è un
attesa lunghissima solo per lui , ma un lentissimo zoom ci rende
partecipi del tempo che passa.
La
scelta compiuta dalla Coppola è tanto semplice quanto geniale:
dovendo mostrare la noia del protagonista, perché non riprenderla e
basta. È per questa scelta che si compie ciò che solo l'arte può
dare. Lo spettatore osserva il protagonista avvolto nella piattezza
della sua esistenza, ma essendo la noia provata dalla spettatore solo
un riflesso, in realtà ciò che primeggia è l'interesse provato nei
confronti dello stato d'animo “in azione” del protagonista, che è
ciò che permette di contemplare l'esistenza del protagonista e di
non annoiarsi.
Potrebbe
sembrare in alcuni momenti di tornare indietro alla concezione di
neorealismo di Rossellini, ma il processo compiuto dalla regista non
lascia inerme l'immagine, ma essendo invece solo finalizzata
all'espressione di uno stato d'animo diventa mezzo della messa in
scena, diventa non un elemento di poetica ma un mezzo d'espressione
legato al film. E questo non può che essere un altro motivo di lode
dell'abilità della Coppola.
Scena
emblematica del film, sia dal punto di vista contenutistico sia
formale, risulta allora quella della piscina. L'ennesimo campo medio
a inquadrare insieme padre e figlia, lui le chiede se sta bene (lì,
in quel preciso momento), lei risponde di si e sull'accompagnamento
di una canzone melodica il campo si allarga lentamente, mentre i due
immobili, con gli occhi chiusi si rilassano al sole, sulle loro
sdraio. Loro sono in pace e lo spettatore non può non sentirlo.
Inoltre ancor di più per effetto dello splendido contrasto con le
altre persone della piscina che passano davanti ai due protagonisti
immobili.
THE TREE OF LIFE.
Racchiudere tutta la vita dell'umanità in un film è sempre stato il sogno di qualsiasi regista ma Malick sa che non è possibile. E neppure ci prova, perchè ciò che vuole "sentire" nella sua opera va oltre l'umanità, fino a toccare la Spiritualità.
Tutto il film è una ricerca sul significato della vita e della morte, e si snoda su un "perché" che risponda al motivo della perdita, che risponda a quella domanda che ripetutamente viene rivolta a Dio e sembra non trovar risposta; se non nel finale, se non quando tutti i personaggi della famiglia hanno parlato al posto di Dio, al posto nostro, per Dio.
Siamo tutti su una spiaggia, che non è un "dove" e non è un "quando", ma solo un là.
Là è la madre stessa a dire a Dio : "prendilo", ed è qui nella vita terrena che il bambino, divenuto ragazzo, muore in quel preciso momento. Perché non esiste una vita separata dalla morte: noi siamo qui, vivi, e siamo allo stesso tempo di là. E siamo noi stessi a richiamiamare i nostri cari , perchè siamo ormai consapevoli di quello che "ciò" significa: essere un tutt'uno.
Malick decide di renderci partecipi: sentiamo per la prima volta la domanda rivolta a Dio e quindi partiamo per il nostro viaggio.
Iniziamo con l'Universo, ma prima vediamo un'immagine offuscata e imperscrutabile che più volte tornerà in seguito, come ha testimoniare la sua Immane Presenza su di noi.
Si parte con un buco nero... e noi ce ne stiamo lì a guardare tutto il percorso del Big Bang, il nostro pianeta che erutta, la vita che fa la sua comparsa... e poi, il momento più alto.
La prima dichiarazione del film parla dell'esistenza a questo mondo della Grazia e della Natura: una non si compiace di sè e non cerca il compiacimento degli altri; l'altra agisce per ottenere ciò che vuole, il compiacimento. La madre e il padre.
Siamo sulle sponde di un ruscello e un dinosauro è disteso agognante. un altro più grande gli si avvicina e lo osserva. Potrebbe ucciderlo, è nella sua natura, ma invece gli appoggia una zampa sul muso; ed è allora, proprio quando pensiamo che lo finirà, che il dinosauro ritira su la zampa, quello rimove la testa e lui gli ripone la zampa sopra prima di andarsene e lasciarlo alla sua morte.
Se il film funziona così bene, se ci sembra di vederlo ma di esserne allo stesso tempo così lontani, così al di sopra, è grazie a quell' intreccio tra le immagini "terrestri" della natura, e quella macchina da presa sempre vicinissima ai personaggi(e l'uso costante di focali larghe è perfettamente funzionale), ad altezza ginocchio, che però mai come in questo caso fanno veramente parlare di "occhio di Dio". Quell'entrare sempre in moviemento e sempre dentro la scena, ci fanno sentire che in quel momento non siamo solo noi ad assistervi.
Comporre immagini come queste è un dono che l'uomo continuerà a invidiare, nei secoli...
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