PROMISED LAND.
Ci sono casi in cui lo
spettatore si sente come avvolto dalla storia che gli si pone
davanti, “scaldato” da una coperta fatta di affezione per i
personaggi e la loro storia. Spesso questi film appartengono al
cinema americano, perché se tante sono le critiche che si possono
muovere a Hollywood di certo non si può contestare la loro abilità
narrativa.
Promised Land racconta
la storia di due impiegati di una multinazionale del gas naturale,
chiamati all'ennesima operazione di acquisto di terreni in una
cittadina (povera) della provincia americana. Ma questa volta la
destinazione riserverà loro la scoperta di pesanti dubbi, sul loro
lavoro ma anche sulla propria identità.
Il
percorso del film si snoda in una serie di scene in perfetto
equilibrio, sia l'una con l'altra che nella propria composizione.
Ognuna offre qualche informazione in più sull'animo dei personaggi,
spesso attraverso un gioco fatto di riflessione e ironia, così
frequente nel cinema americano da poter essere definito “classico”,
ma di certo non semplice da realizzare. In quest'opera tutto si muove
in modo apparentemente naturale, merito della sceneggiatura di Matt
Damon che dimostra nuovamente quanto la sua abilità in questo campo
non sia certo inferiore a quella nella recitazione. Stupisce ancora
l'organicità del testo, per una storia che cresce di scena in scena
senza mai volerci avvicinare troppo al personaggio, cercando invece
di lasciarci lo spazio per un giudizio critico sulla vicenda, ma
anche per riflettere su quale posizione avremmo preso noi in quella
situazione.
Peccato
solo per i rimpianti che avvia la prima scena; col suo splendido
carrello a seguire il protagonista, prima dell'incontro con i
“grandi” capi, aveva fatto sperare in un film con ben altri
risultati dal punto di vista figurativo, come ci si aspetterebbe da
Gus Van Sant. Invece quel che rimane è un'opera narrativa alla
Cameron Crowe. E già questo non è poco.
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